Nessun risarcimento per i messaggi asseritamente denigratori inviati in privato su Facebook
Finita la storia d’amore, restano gli strascichi giudiziari di una presunta diffamazione da parte della donna nei confronti dell’ex, definito “immaturo” nei messaggi inviati tramite Facebook ad amici e colleghi dell’uomo. I Giudici della Cassazione (ord. n. 5701 del 4 marzo 2024) hanno però negato la sussistenza di una condotta diffamatoria vera e propria.

Non sussiste un’ipotesi di diffamazione se le critiche rivolte alla persona offesa sono state inviate tramite messaggi privati indirizzati singolarmente su Facebook a più persone.
Nel nostro caso, un uomo citava in giudizio l’ex compagna per vederla condannata al risarcimento dei danni subiti per averlo accusato ingiustamente del compimento di atti persecutori nei suoi confronti, con conseguente procedimento penale da cui l’uomo era però stato assolto con formula piena. Egli lamenta inoltre, di essere stato screditato agli occhi di amici e colleghi, tramite mail e messaggi Facebook inviati dalla donna con l’intento preciso di danneggiarlo e isolarlo.
In Tribunale la domanda viene accolta con la condannata della donna a versare all’ex 5.000 euro come risarcimento per danno morale.
Di parere opposto, invece, i giudici d’Appello che ritengono mancanti gli estremi della diffamazione, in quanto i messaggi sono stati inviati verso un unico destinatario alla volta, quindi in forma riservata e senza superare i limiti della continenza. I giudici puntualizzano poi che le comunicazioni effettuate sono prive di valenza denigratoria, essendo «semplicemente espressione della delusione personale e della preoccupazione della donna a fronte degli atteggiamenti ritenuti immaturi assunti dal proprio ex compagno».
Con il ricorso in Cassazione, però, il legale che rappresenta l’uomo fornisce una differente chiave di lettura. Nello specifico, l’avvocato sottolinea che, anche se «i messaggi della donna sono stati indirizzati separatamente, quindi in forma confidenziale e riservata, a due amici dell’ex compagno», bisogna tener presente che «di uno dei messaggi è venuta a conoscenza anche una terza persona» e quindi il relativo contenuto non è risultato «essere in realtà riservato».
Infine, secondo il legale è illogico ricondurre i messaggi vergati dalla donna all’espressione di un presunto diritto di critica verso l’ex compagno, poiché «la donna ha utilizzato epiteti ed espressioni di per sé offensivi, poiché volti a sottolineare l’immaturità dell’ex compagno e dei suoi comportamenti».
La Cassazione non ritiene fondato il ricorso e condivide la valutazione compiuta in appello, secondo cui «le espressioni usate dalla donna non hanno espresso, oltre che una delusione personale e una certa preoccupazione sul conto del suo ex compagno, anche la consapevolezza che quelle espressioni, pur non direttamente offensive, avrebbero potuto avere comunque l’effetto di tracciare un quadro non lusinghiero dell’uomo, dipinto indirettamente come una persona instabile e immatura».
Per quanto concerne, poi, la configurabilità del requisito oggettivo della diffamazione, ovvero la comunicazione indirizzata a una pluralità di destinatari, i magistrati ribadiscono che laddove «ci siano state più comunicazioni, ma tutte indirizzate a un singolo destinatario, l’elemento oggettivo della diffamazione, integrato dalla diffusività della condotta denigratoria, può sussistere solo nell’ipotesi in cui il soggetto, pur comunicando direttamente con un’unica persona, esprima la volontà o ponga comunque in essere un comportamento tale da provocare l’ulteriore diffusione del contenuto diffamatorio attraverso il destinatario».
Infine, non può nemmeno essere affermato che il particolare strumento di comunicazione usato dalla donna – ossia il canale Facebook privato – si presti, di per sé, per le caratteristiche intrinseche del mezzo, a facilitare la diffusione delle comunicazioni.